Interrogazioni grammaticali. Problemi irrisolti

Gli interrogativi grammaticali che si/ci pone Paolo Martini, fanno ingarbugliare la matassa sull’idea di grammatica che la tradizione scolastica ha voluto codificare per dare spiegazioni e sicurezze sul funzionamento della nostra lingua agli studenti e confortarli circa l’inamovibilità delle regole descritte nei libri di testo. In realtà fin dalla scuola primaria dovremmo dire ai bambini che la lingua funziona in un certo modo perché siamo tutti noi parlanti che abbiamo bisogno, per comunicare tra noi, di utilizzare modi comuni per poterci capire e quindi questi man mano che li usiamo acquistano forme che durano nel tempo, ma che possono cambiare quando i parlanti cominciano a usare convenzionalmente nuovi modi per esprimere nuove cose e nuovi concetti. In altri termini credo che la convenzionalità della lingua sia un concetto che debba essere appreso nella prima età scolare. Però mi sembra importante che tale apprendimento avvenga in modo naturale per i bambini, per così dire, facendolo scaturire dalla riflessione sulle loro espressioni immediate che emergono nella comunicazione quotidiana.
Per quanto riguarda l’osservazione sulla complessità dei fenomeni linguistici e la riflessione sui medesimi, sarebbe piuttosto auspicabile che entrambe avvenissero più avanti nell’età quando l’esercizio del parlato e dello scritto ha predisposto gli alunni ad una maggiore attenzione a cogliere le differenze e le analogie tra espressioni ricorrenti. D’altra parte i linguisti più avvertiti in studi anche non recentissimi prendono le distanze dall’insegnamento solo normativo della grammatica che ritengono possa essere addirittura dannoso per lo sviluppo delle capacità di riflessione linguistica degli studenti, portandoli spesso ad errori per eccesso di codificazione come si evince dagli esempi che riporta Paolo Martini.
Mi piace riferire qui un ulteriore esempio tratto da una ricerca, condotta sugli studenti della scuola primaria e secondaria, sull’uso del congiuntivo, che, in un interessante incontro, Maria G. Lo duca (università di Padova) ha presentato. (L’esempio riportato si riferisce alla scuola primaria e descrive le risposte date dai bambini circa il significato delle frasi indicate in domanda 1 e domanda 15):
Il congiuntivo modo dell’ ‘incertezza’
(domanda 1): Marco viene stasera / Marco venga stasera
– Paola (V Pr.): La prima frase indica qualcosa di certo, invece la seconda frase indica qualcosa che potrebbe avvenire
– Franca (V Pr.): La prima vuol dire che viene proprio, quindi è certa, la seconda è incerta, forse
– Gloria (V Pr.): ‘Marco viene stasera’ è certo, invece ‘Marco venga stasera’ è un po’ improbabile
- (domanda 15): Corro a fare la spesa prima che nevichi / Corro a fare la spesa prima che nevica
– Gloria (V Pr.): E’ giusta la prima frase perché non sta ancora nevicando e allora vado prima che cominci a nevicare; invece nella seconda frase c’è ‘prima’ quindi prima che succeda la cosa, però ‘che nevica’ significa che sta facendo adesso, quindi è sbagliata
Mi sembra che in questo caso emerga con evidenza quanto la regola grammaticale appresa durante le lezioni scolastiche condizioni le spiegazioni razionali che i bambini si sforzano di dare per giustificare il significato che le frasi, secondo loro, assumono.
L’abitudine della didattica tradizionale nella scuola italiana di partire dalla regola quando si fa riflessione linguistica, mostra i suoi macroscopici limiti nell’insegnamento del latino: spesso infatti mi è capitato di sentir dire ad alcuni studenti del biennio del liceo scientifico: -ma come facevano i romani a parlare tra di loro se dovevano pensare a quali desinenze mettere nelle parole che dovevano utilizzare?-
Penso che l’insegnamento della grammatica italiana abbia fortemente risentito dell’idea che per studiare bene il latino fosse necessaria una classificazione ad libitum di tutti i possibili complementi, attributi, apposizioni, etc. inseriti una volta e per tutte in uno schema preciso da mandare in memoria e utilizzare per spiegare tutte le funzioni linguistiche delle due lingue latina e italiana. E questo convincimento è più duro a morire di quanto si pensi, basta dare un’occhiata ai quaderni degli studenti liceali per vedere quante schematizzazioni di cosiddetta traduzione lineare vengano ancora praticate nelle scuole! Esattamente nell’identico modo con il quale quarantacinque anni fa la mia professoressa di italiano e latino ci faceva lezione.
E qui purtroppo dovremmo entrare in un altro merito: la formazione dei docenti. A parte l’unica forma istituzionalizzata di formazione iniziale, la SSIS, peraltro già eliminata perché costosa e rimpiazzata ancora non si sa bene come, non esiste nella scuola italiana un sistema serio di formazione e di aggiornamento dei docenti, se si escludono le poche e coraggiose iniziative delle associazioni di insegnanti che, al di fuori dell’istituzione e con grandi sacrifici di singoli, hanno portato avanti fin dagli anni ’70 le esperienze più significative.
La realtà tuttora vigente è quella del docente che per sua iniziativa e spesso in solitudine si aggiorna e studia e però non riesce quasi mai a confrontarsi con i suoi colleghi nell’unico posto in cui tale confronto avrebbe una ricaduta immediata, cioè all’interno della propria scuola, perché non ci sono né gli spazi né i tempi istituzionali per farlo.