Ma la lingua sta alla grammatica come…?

di Rosy Gambatesa | del 20/11/2012
Ma la lingua sta alla grammatica come…?

Chi per esplorare una foresta pluviale trascorrerebbe una giornata o più in un museo di scienze naturali? O chi dopo essere stato a passeggiare nelle sale di un museo archeologico avrebbe negli occhi , nelle orecchie e nel naso lo sguardo e la risata di un antico romano o un odore di quel tempo? Intravedere ciò che non c’è e che in quel luogo si testimonia non è forse l’esperienza comune di ogni visita ad un museo? Il visitatore  se ne esce pieno pieno di una mancanza,  passata in rivista nella trasparenza dei frammenti,  allestiti con algido ordine e significato.

Quale piccolo o giovane studente può riconoscere il flusso caldo e le intonazioni della propria lingua, l’urgenza irruenta e il desiderio intimo di far prorompere la sua voce nelle forme che vede sapientemente classificate, paradigmatizzate e descritte in una grammatica? Come può trovare, riconoscere e toccare la sua lingua alla vista  della collezione ben allineata dei frammenti esemplari, delle lunghe teorie di frasi,  che pure nella vita tante volte ha sentito, colto, compreso e allegramente o furiosamente intonato? 

Come può, infatti, uno studente, a scuola, nell’equivoco continuo  tra lingua e grammatica, non ridurre il proprio bisogno espressivo e la propria indubbia  intelligenza linguistica a un guazzabuglio inestricabile di reperti ammonticchiati senza alcun ordine e sapienza? Come può non convincersi che la pratica “corretta” sia una pratica linguistica e grammaticale, insulsa e meccanica,  all’opposto di ogni  sapienza e linguistica e grammaticale? Come può non apprendere per bene che per lui “ la lingua”,  vista nelle grammatiche,  proprio come una foresta pluviale in un museo, sia qualcosa di sconosciuto e inattingibile, nulla a che fare con se stesso? Che altri, sì, potranno, ma che lui no!

Chi vuole imparare a padroneggiare la propria lingua non ha forse il diritto di apprendere proprio  la padronanza della lingua? La grammatica, disciplina a se stante, astratta e generale, ipostasi di fenomeni multiformi e sfuggenti, complessi e articolati, la cui comprensione non meccanica richiede quantomeno occhi adulti e preparati, è veramente necessaria a tutti coloro che si preparano a padroneggiare la propria lingua? Non è forse la grammatica, o meglio le grammatiche, una disciplina adatta a chi vuole applicarsi a studi superiori e specifici di grammatica, quando anche l’età sia adatta ai processi di generalizzazione e astrazione? Non è forse una disciplina fondamentale  proprio per chi andrà a  insegnare con sapienza la lingua? Non sono tante le persone, per primi i bambini, che, vissute in un buon ambiente linguistico, modulano molto bene la lingua senza per questo capire un’acca di grammatica?

La lingua-parola appartiene alle infinite  situazioni del presente, ne è la partitura vocale, parola che risuona  prima ancora di diventare significato e ordine. Caldissima nel suo essere nel momento, immediatamente svanisce e al suo posto rimane il silenzio.  Proprio quel “silenzio dopo la voce” è forse il luogo dello studio della lingua. I repertori e le grammatiche ne sono invece la messa in museo, ricostruzione a posteriori in cui tace la voce e parlano proprio i significati e l’ordine.

Come descrivere l’espressione  “il silenzio dopo la voce  è il luogo dello studio della lingua”?  Forse,  come uno spazio pregno della comunicazione appena accaduta? Lo sforzo di delineare tale spazio che individui la materia della lingua, tra la vocalità della parola e la musealità della grammatica, è  il quid, assolutamente necessario, di chi la lingua la insegna. Infatti,  il luogo della grammatica , la classificazione, la descrizione, la illustrazione dei fenomeni della lingua, al contrario di quello  silente della parola, è un “pieno” e come tale, nella pratica scolastica, viene usato per supplire a quello “vuoto” della disciplina sorella.

L’ equivoco tra lingua e grammatica  è un grosso ostacolo  alla possibilità degli studenti di imparare ad usare con una qualche consapevolezza la propria lingua, senza dire che rende quasi impossibile scoprirne l’amore. Padroneggiare  la lingua non vuol dire sapere la grammatica di quella lingua.  Significa dapprima, tenendo conto delle possibilità di senso proprie di ogni età, saper pensare e dire ciò che si ha l’urgenza di dire, in maniera adeguata ai diversi contesti della vita; poi, saper intendere la voce degli altri; e infine far risuonare il silenzio delle scritture.  

Avere la pretesa di insegnare la grammatica di una lingua che ancora lo studente non possiede è di per sé già un’impresa durissima, adatta solo a pochissimi. E’ mai pensabile di  ottenere che tutti gli studenti della scuola della Costituzione padroneggino la  propria lingua dopo anni e anni di sfiancante insegnamento grammaticale?  L’Italiano, figlio di tale tradizione di insegnamento,  che da tanti anni risuona nel nostro paese, è una testimonianza severa, tra l’altro, anche delle mancanze della scuola.