Testimonianza

di Benedetta Pazzagli | del 24/01/2013
Testimonianza

 

Ieri pomeriggio, in un incontro di formazione con insegnanti della scuola superiore, una collega mi esprimeva le sue difficoltà nella relazione con i propri alunni, molti dei quali extracomunitari con storie di emarginazione, quando non di violenza, alle spalle.

 

Nello specifico, mi raccontava di un ragazzino i cui genitori hanno rifiutato la certificazione per DSA perché “lui non vuole sentirsi diverso dagli altri e

noi non ci possiamo fare niente” e questo anche se corre il rischio di perdere l’anno, perché non riesce a stare al passo con le richieste della scuola. Così, all’ultimo compito in classe, la collega, essendosi resa conto che lo avrebbe consegnato in bianco, gli si è avvicinata ed ha cercato di stimolarlo, lavorando sulle sue risorse in una sorta di scaffolding vygotskiano, così che lui è riuscito a completare quasi tutto il lavoro.

Un altro ragazzo della sua classe, di nazionalità rumena, con una storia di abbandono e violenza alle spalle, si sta “distinguendo”  a scuola per il suo comportamento aggressivo e alcuni colleghi hanno già sentenziato la sua bocciatura, pur essendo solo a gennaio: “ci hanno fatto una croce sopra e si relazionano con lui dandogli due alle interrogazioni”. Lei  però, timidamente, ha provato a metterlo accanto ad un altro ragazzino rumeno un po’ più solido nella sua materia e i due, nella logica della peer education, stanno facendo progressi insieme anche nell’amicizia e nella fiducia in sé, altrettanto necessarie alla costruzione dell’identità.

 

Quando sento raccontare storie di questo tipo, come psicologa e come insegnante, mi chiedo: dov’è la relazione educativa (ex-ducere) e valorizzante (valutare etimologicamente significa “dare valore”) che come adulti significativi ed educatori  di questi ragazzi siamo chiamati a perseguire? Certo, tra le professioni di aiuto, gli insegnanti sono oggi una categoria che più di altre soffre diffusamente della sindrome di burn out: sovraccaricati dalla burocrazie, dalle mille incombenze che esulano  dalla didattica e scarsamente riconosciuti a livello sociale, alcuni insegnanti si “difendono” come possono, talora abdicando anch’essi, come alcuni genitori, al loro ruolo nella relazione con gli adolescenti. E questo è uno dei maggiori disagi del nostro tempo: quello dell’assenza relazionale.

Se l’insegnante è colui che “lascia un segno”, non augurerei a nessuno dei miei colleghi di lasciare quel segno, quella “croce sopra”: la relazione negata, cancellata appunto, espressione di un disagio profondo, riassunto in un due. È la relazione, infatti, che ci rende profondamente umani e negarla è negare la vita.

 

M.Recalcati, analista e acuto interprete del pensiero lacaniano, ci invita a rivedere la recente filmografia di C.Eastwood - Gran Torino, Million Dollar Baby e the Changeling - per ricercare in essa il valore della Testimonianza, dell’esserci per l’altro, nella relazione con lui, al di là del legame di sangue che ci lega: il “Padre” , dice Recalcati, è colui che coniuga La Legge al Desiderio, in opposizione al Godimento sfrenato del “tutto e subito” . Se il tempo della Parola è finito, il tempo della Testimonianza ha ancora valore: Testimonianza intesa come una possibile coniugazione nel quotidiano di passione e fatica, una conciliazione possibile tra idealità e realtà, quella che gli adolescenti stessi ricercano. Non un insegnante perfetto, dunque, che non esiste, come non esiste un genitore perfetto- Bettelheim insegna- ma un insegnante “sufficientemente buono” per dirla con Winnicott, che non significa buonista, o permissivo, ma un insegnante consapevole dei suoi limiti e delle sue risorse, che rimane aperto al confronto e alla crescita professionale e umana; un insegnante che chiede aiuto se sente di non farcela da solo, anche se chiedere aiuto non è mai andato di moda e ancor di più oggi, dove chi mostra di avere delle difficoltà è considerato un perdente. A tal proposito, invito alla lettura del bel libro di Recalcati “Elogio del Fallimento”: è sicuramente una prospettiva divergente che dà  aperture creative al nostro pensiero e ci permette di scoprire che il temuto fallimento, esperienza che aborriamo per noi e per i nostri figli, è proprio quella esperienza che ci è  più necessaria per recuperare il senso della vita e giungere ad un ritrovato equilibrio interiore, integrando aspetti della nostra persona che abbiamo negato.

Concludo dicendo che non ci sono ricette precostituite e la fatica di educare rimane: tuttavia, sono i ragazzi stessi che ci chiedono di rimanere aperti, senza attribuire colpe o operare salvataggi, nel tentativo di  cercare soluzioni “altre” rispetto a quelle già percorse, per continuare a crescere insieme.